La Cassazione supera il precedente orientamento e afferma che l’autoconsumo di pasti non è imponibile se posto in essere dal titolare o dai soci. Scopri nel dettaglio la recente pronuncia della Suprema Corte.
Con l’ordinanza n. 5175 del 25.02.2021 la Corte di Cassazione chiarisce che l’autoconsumo di pasti e bevande anche da parte del titolare o dei soci di società di persone non è imponibile IVA né costituisce ricavo tassabile. Si evidenzia che ai fini IVA la più recente giurisprudenza della Suprema Corte – superando un precedente orientamento secondo il quale la somministrazione di cibi e bevande a soci e dipendenti costituiva cessione di beni imponibile (Cass., Sez. V, 22 ottobre 2010, n. 21713; Cass., Sez. I, 18 aprile 1998, n. 3953) – ha ritenuto che tali somministrazioni costituiscano prestazioni di servizi.
Si è, difatti, osservato, quanto alla somministrazione di cibi e bevande, che «deve accertarsi se gli elementi di prestazione di servizi che precedono e accompagnano la fornitura dei cibi siano o meno preponderanti» (Cass., Sez. V, 20 ottobre 2016, n. 21290). Nel qual caso, dunque, «la fruizione dei pasti da parte dei dipendenti non può essere considerata autoconsumo di beni. Si comprende così perché a mente dell’art. 3, comma 3, d.P.R. n. 633/1972 le somministrazioni nelle mense aziendali non costituiscano prestazioni di servizi ai fini dell’IVA» (Cass., n. 21290/2016, cit.; conf. Cass., Sez. V, 12 febbraio 2020, n. 3387).
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Somministrazione di cibi e bevande: la giurisprudenza europea
La lettura data dalla Corte di Cassazione alle somministrazioni di cibi e bevande trae ispirazione dalla constatazione, di fonte eurounitaria, che la somministrazione di cibi e bevande costituisce prestazione complessa sia in caso di ristorazione (Corte di Giustizia UE, 2 maggio 1996, causa C-231/94, Faaborg-Gelting Linien; Corte di Giustizia UE, 10 marzo 2011, Bog e altri, causa C-497/09), sia in caso di catering aziendale e di preparazione di cibo da asporto (Corte di Giustizia UE, Bog e a., cit., punti 61, 62).
In questi casi, perché la somministrazione possa essere qualificata quale prestazione di servizi anziché come cessione di beni, occorre prendere in considerazione tutte le circostanze nelle quali si svolge l’operazione per ricercarne gli elementi caratteristici e identificarne gli elementi predominanti. Ciò basandosi sul punto di vista del consumatore medio, nonché tenendo conto dell’importanza qualitativa e non semplicemente quantitativa degli elementi di prestazione di servizi rispetto a quelli rientranti in una cessione di beni (Corte di Giustizia UE, Bog e a., loc. cit.).
Se ne è, quindi, dedotto che «l’operazione di ristorazione è caratterizzata da una serie di elementi e di atti, dei quali la cessione di cibi è soltanto una parte e nel cui ambito predominano ampiamente i servizi. Essa dev’essere pertanto considerata come prestazione di servizi ai sensi dell’art. 6, n. 1, della sesta direttiva» (Corte di Giustizia UE, Bog e a., cit., punto 64).
Ne consegue che, in quanto prestazioni di servizi, le prestazioni di ristorazione sono da considerare imponibili solo se di valore superiore alla soglia quantitativa di €25,82 a termini dell’art. 3, comma 3, d.P.R. n. 633/1972, «anche se effettuate per l’uso personale o familiare dell’imprenditore, ovvero a titolo gratuito per altre finalità estranee all’esercizio dell’impresa» (art. 3, comma 3, cit.).
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Autoconsumo pasti non imponibile ai fini Iva e delle imposte dirette
Non imponibilità Iva sia per i dipendenti che per l’imprenditore
Nel qual caso, previo accertamento del valore delle singole prestazioni, le operazioni rimangono fuori campo IVA ove le somministrazioni avvengano in esecuzione di attività di ristorazione prescindendosi, pertanto, dal cessionario della prestazione, vuoi che si tratti di dipendente, collaboratore ad altro titolo, vuoi che si tratti di socio dell’imprenditore, purché rientranti nella previsione di cui all’art. 3, comma 2, n. 4 e comma 3, d.P.R. n. 633/1972.
Distinzione tra dipendenti e imprenditore ai fini alle imposte dirette
Quanto alle imposte dirette, secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione la somministrazione di cibi e bevande al personale dipendente, erogate sia a titolo di liberalità (prestazioni in natura a titolo di liberalità: art. 95, comma 1, TUIR), sia per obbligo contrattuale, come in caso di servizio di mensa (art. 95, comma 2, TUIR), costituisce un costo per l’impresa, deducibile dal reddito e non anche ricavo (Cass., Sez. V, 20 ottobre 2016, n. 21290; Cass., Sez. V, 29 settembre 2005, n. 19077; conf. Cass., Sez. V, 12 febbraio 2020, n. 3387). Si è, in proposito, osservato che «i beni attribuiti ai dipendenti, invece, per la loro natura di costi non possono essere compresi tra gli elementi positivi del reddito e, quindi, il loro valore non costituisce elemento presuntivo di afferente percezione di reddito» (Cass., nn. 21290/2016, 19077/2005, citt.).
Se, peraltro, quanto alla somministrazione di cibi e bevande a favore dei dipendenti non c’è contrasto tra la disciplina IVA e quella delle imposte dirette, essendo in entrambi i casi somministrazioni sottratte a imposizione tributaria (ove, peraltro le suddette somministrazioni rientrino nella franchigia di cui all’art. 3, comma 3, d.P.R. n. 633 cit.), il contrasto emerge in caso di somministrazione di cibi e bevande nei confronti dei soci. Il trattamento ai fini IVA è, difatti, indipendente dalla natura del cessionario della prestazione e viene ancorato alla natura della prestazione trasformazione della cessione di cibi e bevande in servizio di ristorazione), purché rientrante nella suddetta franchigia, laddove la natura di «costo», tale da esentare la prestazione dalla nozione di ricavo imponibile, è ascrivibile unicamente alle prestazioni erogate a favore di dipendenti.
I richiami al TUIR e la distinzione tra cessione di beni e prestazioni di servizi
Ove, invero, le prestazioni fossero erogate a favore dell’imprenditore o dei suoi familiari («consumo personale o familiare dell’imprenditore»; art. 57 TUIR), le prestazioni andrebbero ricomprese tra i ricavi, per quanto al «valore normale» e non quale corrispettivo in caso di cessione a terzi (Cass., Sez. V, 30 gennaio 2019, n. 2634; Cass., Sez. V, 13 aprile 2006, n. 12329).
Si evidenzia, tuttavia, che sia l’art. 85, comma 2, TUIR, sia l’art. 57 TUIR (che al primo fa rinvio) pongono l’accento sulle cessioni di beni in favore dei soci e non sulle prestazioni di servizi, ove siano da qualificare come ricavi (benché al valore normale e non al corrispettivo di cessione).
Conseguentemente, la medesima prestazione (somministrazione di pasti ai soci e familiari dell’imprenditore) avrebbe una diversa connotazione ai fini IVA rispetto che ai fini delle imposte dirette, sia in termini di qualificazione della prestazione (prestazione di servizi ai fini IVA e cessione di beni ai fini delle imposte dirette), sia quanto al regime impositivo (non imponibili ai fini IVA, ove al di sotto della franchigia dell’art. 3, comma 3, d.P.R. n. 633 e sempre imponibili ai fini delle imposte dirette).
La lettura eurounitaria supera la distonia della normativa nazionale
Il che apparirebbe distonico, non solo in relazione all’assoggettamento a imposizione (esente IVA ma non esente dalle imposte dirette), ma anche quanto alla qualificazione della stessa (cessione di beni anziché prestazione di servizi). Distonia, peraltro, che non deriva dalla presenza di una diversa norma impositiva, ma dall’assenza di una norma che disciplini tali prestazioni di servizi ai fini delle imposte dirette.
Né può disconoscersi – dando una lettura eurounitaria ai fini delle imposte dirette delle prestazioni di ristorazione – che la medesima prestazione possa essere qualificata, ai fini delle imposte dirette, anch’essa quale prestazione di servizi, in cui l’attività di trasformazione dei cibi e delle bevande fa perdere l’originaria consistenza quantitativa e qualitativa delle singole componenti, rispetto alle quali diviene improprio il riferimento agli originari beni che erano entrati a comporre la prestazione ristorativa.
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Autoconsumo pasti non imponibile: le conclusioni della Cassazione
Da tali considerazioni deve trarsi la conclusione che l’autoconsumo consistente nella somministrazione di cibi e bevande nei confronti dei soci o dei familiari dell’imprenditore deve ritenersi, al pari delle somministrazioni in favore dei dipendenti, sottratto a imposizione diretta e non ricompresa tra le cessioni di beni assoggettate a imposizione a termini dell’art. 85, comma 2, TUIR, in quanto prestazione di servizi per la quale deve farsi applicazione, in via estensiva, dell’art. 3, comma 3, d.P.R. n. 633/1972, risultando in tali termini tali prestazioni irrilevanti ai fini delle imposte dirette negli stessi termini in cui risultano irrilevanti in campo IVA.
Secondo la Corte di Cassazione, a conforto di tale interpretazione milita l’interpretazione data dalla stessa Amministrazione finanziaria che, in una propria circolare (Circolare n. 175/E del 5 agosto 1999), ritiene – in favore di parte contribuente – non inquadrabili come autoconsumo le «somministrazioni riferibili ai dipendenti e all’autoconsumo dell’imprenditore, dei familiari e/o dei soci».
Viene, quindi, enunciato il seguente principio di diritto: «il servizio di ristorazione alberghiera nel quale vengano somministrati cibi e bevande a favore di dipendenti, soci e familiari dell’imprenditore costituisce prestazione di servizi, non assoggettabile a IVA ove non superi la soglia prevista dall’art. 3, comma 3, d.P.R. 26 ottobre 1972,n. 633; analogamente, non hanno rilievo ai fini delle imposte dirette le somministrazioni di pasti riferibili ai dipendenti, nonché all’autoconsumo dell’imprenditore, dei familiari e/o dei soci, ove le stesse rientrino nella soglia indicata dall’art. 3, comma 3, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633».
E’ un principio di cui l’Amministrazione finanziaria dovrà tenere conto soprattutto nel caso di accertamenti analitico-induttivi o induttivi puri.