La sentenza n. 22/2024 della Corte costituzionale rimodula i confini della tutela reintegratoria in caso di licenziamento nullo, in regime di Jobs Act. Ecco dettagli ed effetti di questa pronuncia.
Novità in tema di licenziamento nullo e reintegrazione del lavoratore. Con la sentenza n. 22/2024 del 22 febbraio 2024, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 2, comma 1, del D.Lgs. n. 23/2015, limitatamente alla parola «espressamente», in quanto in violazione dell’art. 76 Cost., ovvero per eccesso di delega.
Molti commentatori hanno enfaticamente sottolineato che la Corte avrebbe, con la sentenza citata, assestato un nuovo deciso colpo alla disciplina della illegittimità dei licenziamenti introdotta dal cd. «Jobs Act».
Nel presente contributo tentiamo di analizzare sinteticamente l’oggetto e gli effetti di questa sentenza.
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La disciplina esaminata: la reintegrazione del lavoratore per i casi di nullità espressamente previsti dalla legge
Nell’ambito dei licenziamenti individuali, la nota riforma Jobs Act, segnatamente nel D.Lgs. n. 23/2015, ha limitato la sanzione della reintegrazione ai soli licenziamenti dichiarati nulli in quanto accertati come discriminatori o «riconducibili agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge». Ciò, si precisa per chiarezza, oltre ai licenziamenti dichiarati inefficaci perché intimati in forma orale o a quelli per i quali è accertato un difetto di giustificazione consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore.
Le ipotesi di nullità, per così dire, «espressa», del licenziamento, definite tradizionalmente come «nullità testuali», sono rappresentate da norme che prevedono un divieto di licenziamento e, in caso di violazione di questo, la sanzione della nullità quale esplicita conseguenza.
Per meglio comprendere queste ipotesi, si veda l’esempio del licenziamento della lavoratrice madre, che, se intimato dall’inizio della gravidanza sino ad un anno di età del bambino, è espressamente definito dalla legge come nullo.
Ora, in applicazione del D.Lgs. n. 23/2015, ai casi di illegittimità del licenziamento per nullità testuale si applica il rimedio della reintegrazione del lavoratore.
Diversamente, qualora un licenziamento in regime di Jobs Act fosse stato dichiarato nullo per contrarietà a norma imperativa, ai sensi dell’art. 1418, comma 1, cod. civ. (cd. «nullità virtuale»), la conseguenza sarebbe stata l’applicazione del rimedio indennitario.
Si tenga presente che un differente trattamento tra nullità espresse e virtuali dei licenziamenti non aveva riconoscimento nelle discipline precedenti a quella introdotta dal Jobs Act.
Si precisa inoltre – ed è questa, vedremo, la ragione fondamentale della dichiarata incostituzionalità – che la legge delega del Jobs Act (L. n. 183/2014) aveva imposto al Governo di introdurre una disciplina che limitasse «il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato»: in altre parole, senza distinguere tra nullità espressa o meno dei licenziamenti.
Il caso che ha dato origine al dubbio di legittimità costituzionale
La questione di legittimità costituzionale che ha dato origine alla sentenza di cui parliamo nel presente articolo è stata sollevata dalla Corte di cassazione, tenuta a decidere sulla impugnazione di una sentenza della Corte d’Appello di Firenze, con ordinanza di rimessione del 7 aprile 2023.
La sentenza d’appello aveva dichiarato la nullità del licenziamento del lavoratore ricorrente, provvedendo tuttavia a condannare il datore di lavoro alla sola indennità di risarcimento, ai sensi del D.Lgs. n. 23/2015, applicabile alla fattispecie.
In particolare, la nullità del licenziamento era conseguita alla violazione della normativa prevista per gli autoferrotranvieri, che, in materia di procedimenti disciplinari, prevede a specifiche condizioni la possibilità per il lavoratore di convocare il Consiglio di disciplina ed essere sentito a propria difesa.
Nonostante la mancata istituzione del Consiglio di disciplina per l’audizione del lavoratore, infatti, il datore di lavoro aveva comunicato il provvedimento disciplinare.
Il lavoratore aveva quindi impugnato il licenziamento per vederne accertata la nullità, per contrarietà a norma imperativa, con conseguente reintegrazione.
La Corte di cassazione, anche sulla scorta di quanto affermato da parte lavoratore, ha incidentalmente rimesso alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale della norma che limitava la reintegrazione ai licenziamenti nulli (solamente se) così espressamente definiti dalla legge, poiché la legge delega non demandava la riduzione della tutela reintegratoria alle sole nullità testuali.
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La sentenza n. 22/2024
La Corte costituzionale nella sentenza dello scorso 22 febbraio 2024 ha seguito le argomentazioni e conclusioni della corte rimettente, giungendo dunque a dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 2, comma 1, del D.Lgs. n. 23/2015, limitatamente alla parola «espressamente».
Infatti, dopo un excursus sulla disciplina di riferimento, la disamina della Corte ha evidenziato che la legge delega del Jobs Act, sia letteralmente, sia in via sistematica, non può ammettere una limitazione della reintegrazione ai casi di nullità espressa.
Non solo, dunque, perché la norma non prevede alcun riferimento alle nullità testuali, ma anche perché la ratio perseguita dal legislatore delegante è quella di introdurre una disciplina generale dei licenziamenti, per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, a copertura integrale di tutte le ipotesi di invalidità.
Diversamente, l’impianto introdotto dal Jobs Act è risultato incompleto, mancando di una disciplina specificatamente applicabile alle nullità per violazione di norma imperativa.
Come afferma la Corte, in altri termini, la riforma ha lasciato prive di tutela le fattispecie di nullità virtuale dei licenziamenti.
Tale lacuna si è resa evidente proprio nel caso deciso dalla Corte d’Appello di Firenze, in relazione alla violazione della procedura disciplinare disposta dalla speciale norma di legge, ritenuta avente natura inderogabile in quanto prescrizione di validità dell’atto e fondata su un evidente scopo di tutela del lavoratore e, dunque, tale da determinare la nullità del licenziamento.
La declaratoria di illegittimità costituzionale e i suoi effetti sul Jobs Act
Tutto quanto ciò considerato, la Corte costituzionale ha rilevato l’eccesso di delega con riferimento all’art. 2, comma 1, del D.Lgs. n. 23/2015, e la violazione dell’art. 76 Cost., e quindi concluso per l’illegittimità costituzionale di detta norma, abrogandola limitatamente alla parola «espressamente».
In virtù della censura della Corte, la disposizione diventa: «Il giudice, con la pronuncia con la quale dichiara la nullità del licenziamento (…) perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore».
In tal modo, la norma ammette la sanzione della reintegrazione per i licenziamenti nulli anche se la nullità per queste fattispecie non è esplicitamente prevista dalla legge come conseguenza della violazione; ciò, si tenga a mente, «salvo che la legge disponga diversamente» (art. 1418, comma 1, cod. civ.), ossia preveda esplicitamente una diversa sanzione.
Questo allargamento dell’area di massima sanzione dei licenziamenti illegittimi, dunque, è l’effetto conseguente alla declaratoria di illegittimità costituzionale del 22 febbraio 2024, che in sostanza allinea sul punto la disciplina del Jobs Act a quelle precedenti.
Per meglio comprendere questo effetto, si tenga presente che possono essere ricompresi tra le fattispecie di nullità virtuali sanzionate con la reintegrazione, i seguenti esempi di licenziamento:
- in costanza del periodo di comporto per malattia;
- per motivo illecito ex art. 1345 cod. civ.;
- in violazione del blocco dei licenziamenti economici, durante il periodo emergenziale per la pandemia da Covid-19;
- di lavoratori che si astengono dalle prestazioni indispensabili garantite in occasione di scioperi nei servizi pubblici essenziali;
- di lavoratori tossicodipendenti in aspettativa con diritto alla conservazione del posto.
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Reintegrazione del lavoratore per nullità del licenziamento: conclusioni
In definitiva, questa nuova sentenza della Corte costituzionale sulla disciplina dei licenziamenti ilegittimi introdotta dal Jobs Act riduce indirettamente la distanza tra questa e l’impianto disposto dallo Statuto dei Lavoratori, per effetto della Riforma Fornero, ampliando lo spazio riservato alla tutela reintegratoria e ponendosi sul solco di altre sentenze che ne hanno intaccato l’originale schema.
Questo, tuttavia, non significa assolutamente che la reintegrazione diviene la sanzione principale in caso di licenziamento illegittimo in regime di Jobs Act, restando prevalente quella indennitaria.
La sentenza n. 22/2024 ha semplicemente rimosso le differenze di trattamento dei licenziamenti nulli, a prescindere dall’espressa sanzione della nullità nella norma imperativa violata, o meno.
A riprova del fatto che il D.Lgs. n. 23/2015 preveda ancora la sanzione risarcitoria quale principale, la sentenza in commento è di pochi giorni successiva alla decisione che ha confermato la legittimità costituzionale del Jobs Act in tema di licenziamenti collettivi (sent. n. 7/2024 del gennaio 2024), ammettendo che detta normativa possa prevedere una tutela meno «forte» di quella disposta dallo Statuto dei Lavoratori.
Scarica la sentenza n. 22/2024 della Corte costituzionale
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