Il concetto di residenza fiscale esula dalla disciplina civilistica e ha effetti specifici. Ecco come è definito dalle norme fiscali e quali sono le conseguenze ai fini delle imposte sui redditi.
Il concetto di residenza, in senso lato, abbraccia vari ambiti normativi e riguarda la vita di tutti. La sua corretta individuazione determina effetti e risvolti giuridici e pratici di vario genere. In questo ambito si inserisce anche il concetto di residenza fiscale, che ritroviamo nelle norme tributarie ed è caratterizzato da profili decisamente peculiari e specifici. Individuare nel modo giusto la propria residenza fiscale – in Italia o all’estero – è molto importante. Essa infatti determina effetti molto diversi in tema fiscale. Classificazione dei redditi, adempimenti dichiarativi e non solo. Ecco tutto ciò che devi sapere per non commettere errori.
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Residenza fiscale: definizione e disciplina
La definizione di residenza fiscale è contenuta nel TUIR (D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917), in particolare al Titolo I ossia quello relativo all’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF). Il concetto in esame, infatti, ha particolare rilevanza ai fini delle imposte sul reddito. L’art. 2, c. 2 del TUIR prevede che:
“Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo di imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile”
(art. 2, c. 2, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917)
Possiamo dunque vedere come per essere fiscalmente residenti in Italia si debbano soddisfare requisiti di natura sia qualitativa sia quantitativa. In primis, infatti, ciò che rileva è, alternativamente:
- l’iscrizione nell’anagrafe della popolazione residente (ANPR);
- il domicilio o la residenza (come da codice civile).
È a questo punto che va considerato l’aspetto quantitativo. L’iscrizione nell’ANPR o il domicilio o la residenza va valutata in base alla sua estensione nell’arco dell’anno. Non crea dubbi, infatti, la situazione di un soggetto residente in Italia per tutto l’anno (per le persone fisiche, il “periodo d’imposta” coincide con l’anno solare) o, allo stesso, residente all’estero per tutto l’anno. Diverso invece è il caso in cui un soggetto sia residente in Italia per una parte dell’anno e all’estero per il periodo restante.
A questo proposito, infatti, va considerata la durata del periodo di residenza in Italia. La norma ci dice chiaramente che per essere residenti ai fini fiscali, più precisamente ai fini delle imposte sui redditi, la residenza deve risultare in Italia per la maggior parte del periodo d’imposta, dunque almeno 183 giorni nel corso di un anno solare (1° gennaio – 31 dicembre).
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Chi deve fare la dichiarazione dei redditi in Italia?
Chiarito il criterio secondo cui un soggetto risulta residente in Italia o all’estero ai fini fiscali, un aspetto interessante – e strettamente connesso – riguarda il trattamento fiscale dei redditi prodotti in Italia e all’estero. Sono diffusi infatti i casi di contribuenti che realizzano redditi sia nel territorio dello Stato sia al di fuori di esso nello stesso periodo di imposta.
Per la corretta imputazione e il corretto trattamento dei redditi dei soggetti residenti e non residenti, bisogna rifarsi alle Disposizioni generali relative alle imposte sui redditi, contenute negli artt. 1 – 24bis del TUIR. Dall’insieme di questi articoli emerge un principio che possiamo riassumere come segue:
- i soggetti residenti (in Italia) dichiarano in Italia tutti i redditi prodotti – sia in Italia che all’estero – nel periodo d’imposta nel quale risultano residenti;
- i soggetti non residenti (residenti all’estero) dichiarano in Italia i soli redditi prodotti in Italia nel periodo d’imposta nel quale non risultano residenti.
Nel secondo caso, il contribuente va incontro ad una situazione piuttosto lineare. Si ritroverà infatti a versare le imposte sui redditi: in Italia, per quanto prodotto in Italia; all’estero, per quanto prodotto all’estero.
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La doppia imposizione
Diverso è il caso dei soggetti residenti, i quali dichiarano in Italia anche i redditi prodotti all’estero e di conseguenza sono soggetti a tassazione anche su quei redditi che – presumibilmente – subiscono già un’imposizione nel Paese in cui sono realizzati.
A tal proposito intervengono le Convenzioni contro la doppia imposizione, attualmente in vigore tra l’Italia e la maggior parte degli Stati esteri. Le suddette Convenzioni evitano che gli stessi redditi siano sostanzialmente tassati due volte, prima all’estero e poi in Italia. Il problema è superato grazie al riconoscimento di un credito dì imposta, con importo pari a quello delle imposte già versate all’estero, che ne neutralizza l’effetto economico facendo in modo che in Italia sia versata solo l’eventuale eccedenza rispetto a quanto già pagato – in via definitiva – nel Paese estero.
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